Sarzana, che Botta!

« Non sapevano che fosse impossibile, allora l’hanno fatto »

Mark Twain


De Architectura: Botta, la memoria dei luoghi o memoria di sè?

Sarzana e il piano Botta continuano ad essere riferimento di un dibattito nazionale sull’urbanistica, la città, la memoria, la partecipazione dei cittadini. Dopo il sito Abitare, la pagina culturale dell’Avvenire, ecco De Architectura con un saggio di Pietro Pagliardini affrontare i nodi del confronto.
Solo a Sarzana, la città che si fregia del Festival della Mente, si ignorano i grandi temi e le importanti riflessioni sull’urbanistica contemporanea che il progetto Botta hanno scatenato. A conferma che il Festival si svilisce in città a mera occasione di consumo, un evento esclusivamente economico.
A livello nazionale Botta, La Cecla, Pagliardini, Ray Lorenzo parlano di “memoria dei luoghi”, di architettura che deve rispettare la storia con scambi molto vivaci di opinione (Pagliardini: Botta ha memoria solo di se. I suoi progetti si assomigliano tutti” – vedasi il saggio integrale).
A Sarzana, al massimo, si discute di primarie. Ma si tace che il prossimo sindaco, nuovo Principe come lo definisce Botta, deciderà il futuro urbanistico della città col nuovo PUC (Piano urbanistico comunale).
Carlo Ruocco

ARCHISTAR E PARTECIPAZIONE

da De Architectura (link al sito originale) di Pietro Pagliardini

de_architectura._minLeggo su Avvenire di domenica 3 gennaio e commentato dal sito SARZANA, CHE BOTTA!, come segnalatomi in un commento da Enrico Bardellini, una pagina sulle archistar e, da contraltare, alcuni spunti sulla partecipazione dei cittadini alle scelte per la città. Scrivono il sociologo Franco La Cecla e rispondono a Leonardo Servadio, Mario Botta e Ray Lorenzo.

L’Avvenire, con Leonardo Servadio e non solo, è un giornale molto attento al fenomeno dell’architettura e della citt

à, sempre con un taglio non modaiolo ma problematico in cui si mostrano anche aspetti più nascosti e meno esplorati della realtà.

Sul tema archistar credo di aver già detto cento volte ma Mario Botta, ammesso che appartenga al mondo delle archistar in senso stretto (credo appartenga più a quello dei “Maestri”, che sono i padri delle archistar, non tanto per età anagrafica quanto per appartenenza ad un’epoca) non delude mai e offre sempre spunti di discussione.

Botta mi sembra essere affetto più che da “polarità schizofrenica”, come scrive La Cecla, da una certa indeterminatezza nelle sue affermazioni, un dire e non dire che lascia le porte aperte ad interpretazioni diverse, anche se è certamente vero che poi sono i suoi progetti a parlare, come deve essere per ogni architetto, e quelli sono chiarissimi: troppo uguali a se stessi ovunque.

Dice Botta: “L’architettura è ineludibile. Non si può spegnere come fosse una trasmissione che non ti piace o accantonare come un libro che ti delude”.

Io credo che questa sia una profonda verità ma non sono sicuro affatto che Botta gli attribuisca lo stesso significato che gli attribuisco io, cioè che l’architettura non produce beni di consumo ma edifici per l’uomo realizzati per durare nel tempo, per l’eternità nelle intenzioni di ognuno, per cui, una volta costruiti, hanno il dono o la dannazione della permanenza, restano lì a perenne godimento o condanna di chi vi passa davanti e di chi vi abita e, appunto, non si possono spegnere come la radio, né rimuovere in soffitta come un quadro venuto a noia.

Può anche darsi che Botta intenda che l’Architettura, con la A maiuscola naturalmente, promana con tale forza dalle profondità interiori del suo autore da non poterla controllare o spengere.

Può darsi, dico, perché appunto l’indeterminatezza, e non la schizofrenia, mi sembra la cifra di Botta.

E prosegue: “l’architettura non è lo strumento per costruire in un luogo, ma per costruire quel luogo”.

Questa frase è ancora più scivolosa.

Esaminiamone il significato:

Potrebbe essere il segno di una grande attenzione ai luoghi perché potrebbe significare che ogni edificio contribuisce a dare vita (o morte) ad un luogo ma potrebbe anche significare che è l’architetto, indifferente ai luoghi, a crearli ogni volta proprio con le sue architetture. C’è del vero anche nella seconda possibilità, ma questa senza la prima vuol dire attribuire all’architetto una potenza che sovrasta i luoghi.

In entrambe le espressioni, e ancor più dal combinato disposto delle due, traspare in filigrana una concezione “titanica” della figura dell’architetto capace di creare, con la sua architettura ineludibile, la vita dei luoghi. E’ certamente una visione da archistar o Maestro, temperata, questa volta sì, da una specie di pudore, o polarità schizofrenica come dice La Cecla, quando Botta afferma che “gli architetti sono chiamati a lavorare anche sul terreno della memoria, che oggi è il vero antidoto alla globalizzazione”.

Come non essere d’accordo! Solo che Botta dà l’impressione di lavorare sulla memoria di se stesso, dato che i suoi progetti si assomigliano sempre e sono firmati, poco connessi alla memoria dei luoghi, della comunità, della funzione reale e simbolica stessa dell’edificio (si vedano le sue chiese), casomai al richiamo ad elementi costruttivi che costituiscono la memoria dell’architettura, e non dei luoghi, come l’arco o certe forme geometriche astratte o l’uso del paramento a blocchi pesanti o volumi fortemente legati al terreno (salvo alla Scala, dove c’è un ribaltamento gravitazionale con l’astronave levitante sul tetto).

Ma Botta si esprime anche sulla partecipazione dei cittadini alle scelte per la propria città.

Qui il discorso è davvero più difficile perché si corre il rischio della facile demagogia politica o, all’opposto, dell’aristocratico disprezzo verso le masse ignoranti.

Mi sembra che raramente si affronti il problema in maniera “laica” e razionale, rispettosa della realtà, cioè quella di considerare, semplicemente, gli individui come cittadini facenti parte di una comunità e quindi, per definizione, detentori del diritto di esprimersi e di decidere le sorti e la forma del proprio ambiente di vita, cioè la città. Questa è per me una certezza che risiede nell’essenza della città, invenzione che ha qualche millennio di storia e senza la quale dubito avrebbe potuto esserci la storia stessa.

L’unica incertezza e l’unico motivo di discussione, e anche di divisione, dovrebbe essere quello legato alla rappresentatività e alle modalità di accesso a quel diritto, vale a dire se ricorrere ad una democrazia diretta o ad una rappresentativa. Certamente è esclusa del tutto la possibilità che possano essere gli architetti a decidere da soli: non è proprio previsto nei moderni manuali di filosofia politica, essendo Platone superato da un pezzo, almeno su questo argomento.

Ray Lorenzo non lo conosco, le cose che dice nell’intervista mi sembrano molto ragionevoli e di buon senso. Credo tuttavia, ma davvero mi posso sbagliare, che l’esperienza di cui è portatore, cioè quella americana, non possa essere trasferita meccanicamente in Italia dato che penso che là la società civile americana sia molto più strutturata in maniera spontanea attraverso gruppi e associazioni libere da legami politici. In sostanza credo che la società civile sia molto più forte che da noi, dove tutto tende ad essere istituzionalizzato per essere ricompreso all’interno del più ampio e complicato processo politico. Ogni occasione da noi è buona per creare un’agenzia, un comitato ufficiale, un Ente, un gruppo di lavoro che, in un modo o nell’altro, fa riferimento a qualche forza politica o a qualche istituzione pubblica. Insomma mi sembra che in Italia il rischio di addomesticare ogni gruppo nato spontaneamente, quando non creato istituzionalmente dall’alto, sia altissimo.

Leggendo l’articolo di La Cecla sento parlare di facilitatori (un nuovo lavoro, né più né meno), di una stabile Agenzia a Torino e mi metto subito sul chi va là: qui c’è sotto qualcosa, qui non c’è nessuna spontaneità, qui c’è un sistema istituzionalizzato e addomesticato che poco ha a che vedere con la partecipazione vera. Assomiglia molto al Garante dell’informazione della Legge Urbanistica della Regione Toscana: non dico che sia un errore in senso assoluto, ma che sia da esaltare proprio no, perché la partecipazione per legge proprio non funziona, si riduce ad uno stanco rito privo di contenuti, come, ad esempio, le assemblee partecipative istituzionalizzate in ambito scolastico, ormai buone solo per saltare una mattina di lezione.

Personalmente, ma posso ricredermi, sono convinto che sia estremamente difficile coinvolgere davvero i cittadini nel corso del progetto. Ascoltare i cittadini prima è doveroso, saggio, utile e necessario, al pari di quello che avviene quotidianamente nel rapporto tra un architetto e il proprio cliente; progettare insieme ad una moltitudine di persone mi sembra utopico e non proprio agevole.

Credo invece, fermamente, nella scelta dei cittadini, nella consultazione popolare sul progetto o su più progetti. E’ successo spesso nel passato lontano e recente, deve succedere molto più spesso. E’ la democrazia, niente di più, niente di meno; è la politica.

E Botta che dice? Cosa può dire se ultimamente viene contestato a Genova, a Sarzana!

Alla domanda se può funzionare l’architettura partecipata, risponde: “Funziona dove l’architetto è in grado di dar forma al consenso. Che però può configurarsi anche come ‘rapina’… “.

Evidentemente lui ritiene di non essere adatto a dare forma al consenso ma anche a non fare rapine. Almeno la sincerità e l’onestà deve essere apprezzata.

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Data
domenica, 17 gennaio 2010

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